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Il futuro di Taranto siamo tutti noi

“Taranto è una città sventrata, porosa, corrosa dai vuoti urbani. Ci sono le scuole in disuso e le aree dismesse della Marina, i vicoli della città vecchia in preda al degrado, intere file di palazzi sfitti nel Borgo, e poi cantieri bloccati nel tempo, vecchi hotel abbandonati e non più protetti dalle lamiere di cinta… Lo spopolamento sta afferrando anche il cuore nevralgico della città. Approfittando dell’assenza del traffico, prendo la macchina e faccio un lungo giro per le periferie, dai Tamburi fino a Paolo VI, l’estrema banlieue della città. Al volante, mi ricordo all’improvviso, di quando una volta un vecchio politico cittadino mi spiazzò confidandomi che Taranto, in realtà, è solo un’enorme periferia anonima e sgraziata: «Chiunque voglia governarla deve averlo bene in testa»”.

Lo scrittore Alessandro Leogrande affidava a queste righe una descrizione della sua dolorosamente amata città, nel contesto di un lungo reportage che aveva come fulcro l’enorme bubbone dell’Ilva. Scriveva nel periodo di transizione tra i Riva e Arcelor Mittal, quando il lungo processo “Ambiente svenduto“, durato 9 anni, era già cominciato. Non ha potuto assistere alla sentenza di portata storica dello scorso 31 maggio perché è andato via troppo presto, nel 2017 a soli 40 anni, seguito pochi mesi dopo dal padre Stefano, che lottava da tempo contro un tumore. 

Anche se la morte prematura dello scrittore tarantino più rappresentativo degli ultimi anni è una fatalità, quella di Taranto e della sua acciaieria, più grande della città stessa, è una storia di morte e di dolore, tanto da aver indotto i cittadini del quartiere più vessato dai venti mefitici provenienti dalla centrale, il Tamburi, a fissare una lapide in cui maledicono “coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”. 

Già nel suo reportage, Leogrande smascherava l’artificio del tutto retorico della coniugazione possibile tra salute e lavoro. Non è così e in mezzo secolo l’hanno imparato tutti a spese loro. Perché i “padroni” e i politici da sempre hanno provato a fare avanzare le ragioni del denaro, anche quando il processo penale si è aperto, nel 2012, e sono fioccati i cosiddetti decreti salva-Ilva.

La storia è complessa ed estremamente tecnica e abbiamo provato a raccontarla con Alessandro Marescotti, dal 1991 presidente dell’associazione Peacelink, in prima linea per la salute e l’alternativa ecologica all’ecomostro. Anche lui dotato di una tenacia e una costanza che non può che aver ereditato dal padre Luciano, ex partigiano che quest’anno avrebbe compiuto 100 anni, ma si è fermato a 96. Marescotti raccoglie l’espressione di Leogrande e insieme anche il senso dell’attivismo contro, a questo punto “contro” l’Ilva: “bisogna rompere per poter aggiustare”, mi dice nel suo dialetto quando lo intervisto.

Per fare questo i tarantini sono stati caparbi: per la prima volta un processo per disastro ambientale è andato avanti a colpi di studi e istanze portate direttamente dai cittadini. Ci sono voluti nove anni per il primo grado: 47 condanne, tra le quali spiccano quelle a 22 e 20 anni per i vecchi proprietari dell’acciaieria, Fabio e Nicola Riva, 21 per Girolamo Archinà, che gestiva le relazioni istituzionali. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, sono divisive le condanne a tre anni e mezzo per Nichi Vendola e due per Giorgio Assennato, ex direttore dell’Arpa regionale. L’ex presidente della Regione Puglia ha promesso battaglia, rivolgendo parole durissime contro la magistratura, parlando di “mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare”.  La politica, si diceva: i partiti sono i grandi assenti dalla parte civile del processo. Chiudere una fabbrica non porta consenso. Menzione d’onore ai Verdi e al loro coordinatore nazionale, Angelo Bonelli, che da quattro anni ha fatto di Taranto la sua residenza.

Un aspetto fondamentale delle sentenze è la disposizione di confisca dell’area a caldo dello stabilimento, quella del tristemente famoso camino E-312; ma prima che l’impianto smetta di funzionare si attenderanno almeno tutti e tre i gradi di giudizio. A meno che. A meno che sul profilo amministrativo il Consiglio di Stato non dia ragione al TAR di Lecce, che aveva accolto l’ordinanza del Comune di Taranto di chiudere la stessa area. 

Gli stessi cittadini, come annunciato da Marescotti, stanno presentando i documenti necessari per un nuovo processo, perché vogliono dimostrare che il siderurgico ha continuato a inquinare e provocare effetti avversi sulla salute anche dopo i fatti presi in esame dal processo Ambiente svenduto. C’è ancora una strada, di cui parliamo con la rappresentante cittadina di Peacelink, Fulvia Gravame, e anche con Marescotti: i fondi del PNRR potrebbero dimostrare che Taranto può farcela senza i fumi inquinanti, ma il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, continua a fare dichiarazioni preoccupanti. Dovrebbe essere questo il momento in cui sentirci tutti tarantini.

Le interviste e i commenti alla sentenza sono disponibili su Radio32.net a partire da sabato 5 giugno 2021.

Andrea Aufieri

Cerco di coltivare una curiosità basilare per questo mestiere. Lavoro con le parole e con i dati, sono il direttore di Sinapsimag e mi interessano molto le dinamiche sociali legate al progresso scientifico. andreaufieri.it

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