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Le razze non esistono, il razzismo sì. Dialogo con Guido Barbujani

Esistono ancora posti del mondo occidentale, come l’Italia, in cui si discute circa l’effettiva esistenza delle razze umane, nonostante dalla seconda metà del Novecento gli strumenti a disposizione della ricerca scientifica abbiano permesso di superare tale assunto. Lo studioso che più di tutti si spende per questo dibattito è il genetista Guido Barbujani, professore all’Università di Ferrara, che insieme a una copiosa produzione scientifica è autore di numerosi libri divulgativi di grande successo: L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana (Bompiani); Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo (Laterza) e Sillabario di genetica per principianti (Bompiani) solo per citarne alcuni. Nel 2003 ancora la Laterza ha pubblicato un piccolo cult dal Festival della Mente, Sono razzista ma sto cercando di smettere, scritto a quattro mani con il compianto giornalista Pietro Cheli e alla cui fortuna è intestata la nostra ironica rubrica Sono razzista ma.
Di razza, razzismo, origini e futuro dell’uomo abbiamo dialogato in un’intensa chiacchierata con il professore.

Nel 2020 la teoria dell’inesistenza delle razze è unanimemente accettata o si discute ancora?
Ci sono tante persone comuni che ancora non ci credono, come anche tanti scienziati in ambito medico che negli Usa continuano a ragionare in termini di classificazione razziale, quindi il dibattito è ancora aperto, ma non tra le persone competenti. Chi si occupa di biodiversità umana ha abbandonato il concetto di razza come strumento utile a comprendere le nostre differenze.

In che modo è stato possibile smontare l’argomentazione a sostegno della razza?
La suddivisione dell’umanità in razze è stato un postulato storico di due secoli di ricerca, da quando nel Settecento si è cominciato a cercare di classificare scientificamente le persone assegnando ai gruppi nomi in base all’origine geografica.

Il concetto è andato in crisi perché nel corso di due secoli e mezzo non si è riusciti a mettersi d’accordo su quante e quali siano le razze. Si arriva a oltre duecento classificazioni. Questo problema era stato già oggetto dell’ironia di Charles Darwin, che notava come si passasse dalle due alle sessantatré razze a seconda dello studioso di turno.

Con lo sviluppo della genetica dalla seconda metà del Novecento si è capito che non ci si riesce ad accordare sulle razze perché le nostre differenze genetiche semplicemente non corrispondono ai confini tracciati in base alla suddivisione in razze, sia i confini tracciati dagli studiosi, sia quelli che ci si immagina nelle chiacchiere da bar.

E che cosa racconta il genoma?
Che in ciascuno di noi ci sono tante sfumature, ma non ci sono separazioni nette tra quelli fatti in un certo modo e quelli fatti in un altro.

Perché la scienza medica statunitense incoraggia la teoria della razza?
Per un misto di ignoranza di quello che la ricerca genetica ha sviluppato e del persistere di stereotipi sociali, specie negli Usa. Anche se da un punto di vista biologico le razze non esistono, negli Stati Uniti ciascuno da quando è nato sa di essere classificato come bianco, nero, asiatico o addirittura ispanico.

Proprio la classificazione degli ispanici è la dimostrazione di quanto sia insulsa scientificamente l’argomentazione razziale. I cosiddetti ispanici comprendono i discendenti di persone presenti sul territorio americano da prima della colonizzazione europea (come Rigoberta Menchù ), di europei (come Isabel Allende), degli schiavi neri venuti dall’Africa (come Teòfilo Stevenson), o di qualsiasi altra mescolanza di questi antenati. Finiscono tutti insieme nella cosiddetta razza ispanica perché parlano la stessa lingua, cioè per una caratteristica culturale, non biologica.

Quando un medico americano fa un qualunque studio ospedaliero, la prima cosa che fa è dividere i suoi pazienti in base al colore: neri, bianchi, gialli ispanici o anche in più gruppi.
E naturalmente, siccome il genoma si può definire “un posto abbastanza grande”, salta sempre fuori qualche differenza. Sarebbe lo stesso se confrontassimo interisti, milanisti e juventini, ma l’esistenza di queste differenze contribuisce a far perdurare l’idea delle razze nella ricerca clinica nordamericana.

Se non esistono le razze, perché esiste il razzismo?
La teoria della razza è un tentativo di descrivere scientificamente le nostre differenze. Il parere mio e di altri studiosi è che questo approccio sia una specie di lente deformante, che non permette di capire le basi delle nostre differenze, che invece si capiscono molto meglio se si considerano gli individui come tali e non come appartenenti a categorie astratte.

Appartenere a una categoria significherebbe essere tutti estremamente simili: ma l’idea che tutti i maghrebini o gli indiani o gli afroamericani siano geneticamente uguali non regge, perché le differenze all’interno di questi gruppi sono sempre grandi, e a volte enormi. Parlare di razza significa comunque parlare di basi biologiche delle nostre differenze.

Razzismo significa parlare dei diritti e l’atteggiamento razzista è quello di chi pensa che in base alle differenze di origine o di passaporto si debbano avere diritti diversi.
Sono due terreni separati che si influenzano. Chiamo ancora una volta in causa gli Usa perché sono il paese più avanzato del mondo a livello scientifico e questa visione razziale è così radicata da ripercuotersi sulle strutture, i modelli e i metodi della ricerca.

Quanto conta, dunque, il fattore culturale?
La prima cosa da capire è che i fenomeni di razzismo sono tanto più radicati quanto più una società è divisa da conflitti al suo interno. Quanto più le persone sono preoccupate per il loro futuro e quello dei loro figli, tanto più è facile che indirizzino il loro odio nei confronti dei diversi.

Questo è un fenomeno planetario. Guardando la carta geografica ci rendiamo conto che queste dinamiche avvengono in tanti paesi. Spostandosi dagli Usa, paese attraversato in questo periodo proprio dalle ricadute di un pensiero di questo tipo, potremmo andare in India, dove governa un partito nazionalista fortemente xenofobo e isolazionista, non su basi strettamente razziali, ma su basi religiose.

Lo stesso si può dire di Russia e Turchia. Come dire, c’è una reazione alle tensioni della contemporaneità che porta a tracciare confini tra un noi e un loro e quindi tra chi può essere discriminato e chi no.

Dire che non ci sono le razze non significa dire che siamo tutti uguali, ma che siamo diversi come lo sono i telefonini di una marca o di un’altra. Tutto ciò che riduce questo tipo di conflitti all’interno di una società è benvenuto e riduce anche il carico di razzismo.

In Italia, anzitutto, come studioso e ricercatore di questi argomenti, è stato mai interpellato anche per influire con una consulenza sugli aspetti politici e decisionali legati alle politiche migratorie? D’altronde se si parla di “emergenza” da trent’anni un problema politico dev’esserci.
Non sono stato interpellato da nessuna istituzione, se non strettamente culturale, per una consulenza. Ancora una volta credo che il problema sia politico, perché tutte le fazioni pensano che ponendo con forza il tema delle migrazioni perderebbero voti. Non solo in Italia. L’emergenza, come dici, si protrae anche perché si fanno programmi che devono dare risultati entro poche settimane, non si provano a risolvere problemi strutturali guardando a come vorremmo fossero le cose fra anni.

Credo si debba anche rivedere l’assunto iniziale: un recente sondaggio Ipsos ha decretato che il 55 per cento degli italiani è favorevole allo ius culturae, per esempio. Ma non parlo da esperto politico.

Il suo stesso lavoro può assumere un significato politico.
Tutto quello che facciamo può essere letto come atto politico, il problema è capire chi recepisce il messaggio. Non esistono meccanismi virtuosi, che dovrebbero essere tipici delle democrazie, per accogliere il transito di idee dalla società civile alla politica. Di fronte alla globalizzazione è diventato tutto molto complicato, e le democrazie si sono indebolite.

E non è stanco di occuparsi esclusivamente del dibattito sulla razza?
Mi diverto molto a parlare di queste cose, perché ci sono opinioni diverse. Il mio lavoro di ricerca chiaramente non va più in quella direzione, perché l’idea che le razze umane non esistano è consolidata fra i genetisti. Al momento, come molti altri ricercatori, sto cercando di capire qualcosa di più della storia evolutiva dell’umanità confrontando il dna di persone vissute in momenti diversi della storia e mettendoci dentro modelli matematici che possano provare a spiegarci le loro relazioni.

Quindi è vero che la questione della razza non è più oggetto di attiva ricerca scientifica. Rimane però al centro di molte discussioni, anche fra persone colte. Per esempio, quando Piergiorgio Odifreddi dice che da genitori bianchi nascono figli bianchi e da genitori neri nascono figli neri, ergo ci sono le razze.

Il messaggio che deve passare è che le cose non sono così semplici. Finché potevamo misurare il cranio, il colore della pelle e poco altro, poteva andar bene questo livello di approssimazione. Siccome oggi ne sappiamo infinitamente di più, dobbiamo concludere che ogni tentativo di classificazione razziale finora è fallito. Quindi, se uno crede alle razze deve spiegarci quali e quante sono e dopo spiegarci come mai ci sono decine di cataloghi razziali differenti.

Eppure la semplificazione non può essere contro la complessità, quando la semplicità è il risultato evidente della complessità e non mero appiattimento.
In effetti è indispensabile che gli scienziati riescano a spiegare con semplicità ai cittadini cosa fanno, specie se usano fondi pubblici. Però entrando nel dettaglio è complesso farsi spiegare tutto: quando acquistiamo un pc non chiediamo al venditore di spiegarci i principi dell’informatica. Per quello ci vogliono tempo e studio e non tutto si presta a sintesi estreme.

Tornando al suo attuale indirizzo di ricerca, che novità ci sono sulla ricostruzione della nostra storia evolutiva?
Molte. Lo sviluppo dello studio del dna antico sta dando tante risposte interessanti. Per esempio studiando alcuni geni riusciamo ad arrivare a un’approssimazione molto dettagliata del colore della pelle dei nostri antenati. Così, stiamo scoprendo che i primi europei avevano la pelle molto scura e che le pelli chiare sono arrivate molto di recente.

Uno studio dello scorso anno ha dimostrato che una ragazza in Danimarca di 5700 anni fa aveva la pelle molto scura, come quella degli indiani del Sud di adesso. Aspetti che non potevamo immaginarci.

Si tratta di una conseguenza delle migrazioni dalle zone più calde del mondo?
Si, e per dare un’idea di come si sviluppino in fretta le cose: mentre vent’anni fa avevamo capito che venivamo tutti quanti dall’Africa e che settantamila anni fa ne siamo usciti colonizzando gli altri continenti, adesso siamo riusciti a definire molto più in dettaglio le rotte migratorie, e ci sono motivi per ritenere che in queste migrazioni ci siamo un po’ mescolati con l’uomo di Neanderthal, con l’uomo di Denisova e con altre forme umane che abitavano questi continenti prima di noi.

Altra cosa interessantissima è che andando a studiare lo stesso luogo in momenti diversi del tempo, quasi mai si trova una continuità genealogica. Ci sono varie popolazioni che si sovrappongono ed è molto raro che in un posto le persone che vi si trovavano anche tremila anni prima siano gli antenati di quelli che vi si trovano oggi. Ci sono eccezioni, ma la regola è che nel giro di due-quattromila anni la popolazione cambia profondamente.

E se volessimo guardare al futuro? Che caratteristiche potrebbe avere l’uomo? Mi viene in mente l’evoluzione umana ipotizzata da Harari, a metà tra cyborg e manipolazione genetica per “sconfiggere la morte”.
Non saprei proprio, e personalmente credo che convenga stare con i piedi per terra. Harari parla di un sacco di cose, e spesso lo fa in modo molto convincente e interessante da leggere. Però, per quello che posso giudicare io, nella genetica mescola teorie solide e confermate a teorie un po’ meno sicure fino a teorie molto controverse e infine illazioni, congetture e autentiche sciocchezze, senza permettere al lettore di capire fin dove si muove su un terreno stabile e dove invece cominciano le ipotesi.

Faccio un esempio; Harari sostiene che l’uomo sia l’unica specie capace di collaborare su compiti complessi. A parte il fatto che le api quando si segnalano dove si trova la roba da mangiare stanno appunto collaborando su compiti complessi, esiste un intero dipartimento a San Diego, l’istituto “Carta” per l’antropogenesi, dove sono state formulate varie teorie. Harari ne sceglie una e la racconta così bene che meriterebbe di essere vera, ma in questo modo non stimola il senso critico, e semplifica anche dove nessuno è ancora in grado di semplificare. Io direi che, quando non si sa, è meglio tenere la bocca chiusa.

Quale potrebbe essere, dunque, un’ipotesi più realistica?
Come evolverà la diversità umana non dipende, ancora una volta, da fattori biologici, ma psicologici e sociali, perché ci sono posti come il Brasile dove la gente di provenienza diversa si è mescolata e si ha una variabilità continua; e posti come gli Usa dove non solo i neri hanno i loro quartieri e non si mescolano con gli altri, ma anche cubani e portoricani stanno in distretti diversi della città, dove vivono e litigano tra loro. Se prevale il primo meccanismo le differenze tra le popolazioni sono destinate a ridursi. Se prevale il secondo le differenze si acuiscono.

Quale libro consiglierebbe per approfondire i temi di cui abbiamo discusso?
È appena uscita la traduzione italiana dell’ultimo lavoro del mio collega inglese Adam Rutherford, di cui condivido ogni riga: Cosa rispondere a un razzista (Bollati Boringhieri).

*in cover foto di Maurizio Molinaroli
Andrea Aufieri

Cerco di coltivare una curiosità basilare per questo mestiere. Lavoro con le parole e con i dati, sono il direttore di Sinapsimag e mi interessano molto le dinamiche sociali legate al progresso scientifico. andreaufieri.it

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