Guglielmo Forges Davanzati, nato a Napoli nel 1967, è docente di Economia politica e di Storia dell’analisi economica all’Università del Salento. Lo abbiamo intervistato per chiarire alcuni passaggi che stanno segnando gli eventi locali e globali di questo periodo.
Un’ideale introduzione a questo intervento si trova nella sezione “Le vostre domande”, in cui abbiamo chiesto al professore se l’economia e la finanza abbiano basi scientifiche.
Guglielmo Forges Davanzati
Qual è l’errore più comune che commette uno Stato in economia, qual è l’errore più ricorrente dell’Italia?
La mia risposta è influenzata dal mio orientamento teorico (nell’articolo segnalato all’inizio, il professore ha dichiarato di considerarsi un marxista non ortodosso, convinto della capacità del capitalismo di evolversi e non di esaurirsi, ndr), ma comunque c’è un ampio e trasversale consenso su questo. I volani della crescita economica sono due: innovazione per la crescita (finanziamenti per la ricerca e le università) e la spesa pubblica produttiva, per intenderci quella che investe sulle infrastrutture di lungo periodo.
L’Italia su che strada si è messa in economia?
L’Italia non sta affrontando una spesa pubblica produttiva, ma in conto corrente. Faccio un esempio di attualità: io valuto piuttosto negativamente il reddito di cittadinanza, perché si inscrive in quel tipo di provvedimenti che i governi hanno preso negli ultimi anni di aumento della spesa per obiettivi di breve se non di brevissimo periodo, che non attivano la crescita. La spesa pubblica produttiva affronta tematiche come la messa in sicurezza del territorio, la costruzione di infrastrutture, lo stimolo della ricerca. L’Italia da tanti anni, almeno dalla fine degli anni ottanta, è entrata in una spirale perversa di riduzione della spesa per gli interventi pubblici, contestuale e conseguente riduzione degli investimenti privati, riduzione dei finanziamenti per la ricerca. Non ci sono ragioni per cui si verifichi una crescita. L’Italia si è messa in condizione di affondare con il governo Ciampi e le manovre lacrime e sangue, iniziate con l’aumento della tassazione e il definanziamento delle università e della ricerca.
Le misure economiche del governo M5S-Lega, come il reddito di cittadinanza, non risolvono nessun problema?
La classe politica attuale non ha un progetto di sviluppo, almeno non è chiaro. Il dibattito politico di questi mesi ha portato il governo a fare una scelta apparentemente in controtendenza. Con una propaganda molto efficace ha fatto credere che abbiamo superato l’austerità di Monti e di Letta. A ben vedere, però, sta ingaggiando una battaglia a mio avviso anche molto pericolosa con l’Europa per ottenere margine di manovra, tecnicamente più “spazio fiscale”, per fare provvedimenti che non attivano la crescita: reddito di cittadinanza, flat-tax, revisione Legge Fornero. Quota 100, sono provvedimenti che rispondono a una logica elettorale, e questo è un possibile merito se allevierà situazioni di povertà estreme, ma non vedo un nesso tra il reddito di cittadinanza e la crescita. Ci potrà essere nel brevissimo periodo un’idea di crescita, ma dovuta al fatto che una parte del reddito di cittadinanza sarà impegnata per i consumi.
Quale sarebbe l’atteggiamento più auspicabile dell’Italia nei confronti dell’Europa?
Il problema, di fronte all’Europa, è che per guadagnare spazio devi avere garanzie, avendo in primis un prodotto interno lordo tale che ti faccia riconoscere come partner affidabili. Contrattare margini di spesa maggiori con prodotti interni lordi bassi può aver senso se si va oltre il 3% per usi produttivi della spesa pubblica (ovvero per un utilizzo della spesa pubblica che lasci ai nostri successori una maggiore e migliore dotazione di capitale), ma se poi usi quel margine per fare operazioni di misure elettoralistiche di breve periodo, sei sulla strada sbagliata.
La mossa del governo in sé è corretta. La messa in discussione dei parametri da Maastricht, del fiscal compact, sono ampiamente condivisibili. Per esempio il 3 per cento: non bisognerebbe superare il rapporto tra deficit e prodotto interno lordo (Pil) del 3 per cento, cioè quanto lo stato spende e incassa. Da dove viene questo 3 per cento che bisogna rispettare per restare nell’Eurozona? Dal nulla, non c’è una verità scientifica, per restare in tema, che impedisca di sforare anche del 4 o del 5 per cento. Il problema però è un altro: non si rispetta questo parametro per fare cosa?
Si va inevitabilmente verso uno strappo con l’Unione Europea?
In effetti credo che questo Governo intenda andare a un lungo braccio di ferro con le Istituzioni europee e forse anche all’uscita dall’euro (se non fosse che molti suoi elettori sono contrari, o lo sono diventati contrari). Sia chiaro: l’Europa è una costruzione disfunzionale, basata su un’unione che genera conflitti al suo interno, non è per nulla un’area valutaria ottimale, la sua impalcatura istituzionale è tale da generare deflazione. E tuttavia, i costi dell’uscita unilaterale, come ho scritto in altre sedi, sono altissimi. In più, storicamente i casi di unioni valutarie fallite sono stati casi di divorzi consensuali e di piccole aggregazioni: nulla a che vedere con l’UME.
L’Italia fa in tempo a rimettersi in carreggiata?
La mia preoccupazione è che questo governo, come alcuni dei precedenti, non abbia le idee davvero chiare, a parte quella di alcuni, molto pericolosa, per cui l’Italia e più ancora il Mezzogiorno, debba essere un paese a vocazione turistica. Quella di assecondare, per così dire, le vocazioni naturali è una strada pericolosa. Agricoltura e turismo, per esempio: se l’obiettivo è quello di generare crescita andiamo su una strada opposta. Si tratta di settori tecnologicamente maturi, dai quali non ci si può aspettare – se non integrati con un robusto settore industriale – crescita di lungo periodo. D’altra parte, a mia conoscenza, nessun Paese è cresciuto di solo turismo.
Chiariamo però un dato: a fronte della deindustrializzazione in corso su scala globale, l’Italia vive questo processo con la massima intensità (circa 25 punti percentuali di produzione industriale persa nell’ultimo decennio). In più, l’Italia è il vero Paese dualistico dell’Eurozona e il processo è più accentuato al Sud.
A questo punto sarebbe necessario introdurre l’aspetto cardinale della questione migratoria nell’economia globale, ma la questione è così complessa che abbiamo voluto affrontarla a parte.
Qual è la produzione utile per l’Italia?
La produzione che serve non è quella di beni di consumo, ma manifatturiera, fatta normalmente da aziende di grandi dimensioni. Uno dei problemi principali in Italia è che ci sono troppe piccole aziende in settori ormai definiti maturi, che non producono più innovazione: agroalimentare e turismo di bassa qualità, per esempio.
Non avendo una politica economica chiara, l’assenza di una politica energetica che sostenga la produzione è parte integrante del declino italiano?
Non abbiamo una politica energetica da decenni, siamo importatori netti di petrolio, con un uso di energie rinnovabili al lumicino rispetto a paesi europei e dell’Ocse. Da questo punto di vista dobbiamo fare attenzione nel 2019, con la gestione dei primi segnali di aumento del prezzo del petrolio combinati con la fine del quantitative easing. Non avendo creato in questi anni le condizioni per essere indipendenti dal consumo di petrolio, se il prezzo del petrolio aumenta questo riproduce squilibri sulla bilancia dei pagamenti, sulla crescita e sulla capacità di ripagare il debito.
Abbiamo i mezzi per contrastare questo declino?
Dovremmo cambiare direzione nella gestione delle finanze pubbliche, non meramente come contrasto all’austerità (di per sé fallimentare) e dunque non illudendoci che politiche fiscali espansive siano risolutive o siano migliori. L’Italia ha sempre fatto troppa spesa corrente (si pensi al regalo elettorale degli 80 euro del Governo Renzi). Occorre più spesa in conto capitale, per la messa in sicurezza del territorio, la riqualificazione urbana, le infrastrutture (soprattutto al Sud), la ricerca scientifica e l’istruzione. Occorre cioè guardare al lungo periodo.
Stanno cambiando proprio i paradigmi che porteranno a una transizione politica sostanziale? Si passerà da vie riformistiche o da uno strappo violento e doloroso?
La scienza economica ben difficilmente riesce a fare previsioni affidabili. Se è inoppugnabile che il mondo va a destra – il che sul piano economico significa un aumento delle misure protezionistiche, tariffarie e non tariffarie (quella che qualcuno chiama deglobalizzazione) – sarebbe un buon esercizio, per gli intellettuali di sinistra di casa nostra, comprendere che questa è una deriva e che il sovranismo non ha nulla a che vedere con la difesa dei salari e dei diritti dei lavoratori. Il sovranismo è politicamente regressivo ed economicamente redistributivo.
Premetto di non avere molte competenze sul tema. Le speranze sulla possibilità di creare monete parallele sono molte. Ma attenzione. Qui è in gioco il monopolio della BCE (e delle banche centrali) nella creazione di moneta e, dunque, c’è da aspettarsi maggiore regolamentazione, se non proibizione. Spesso, chi sostiene le virtù salvifiche delle monete virtuali si colloca – anche inconsapevolmente – lungo una linea teorico-politica che va dall’ultraliberismo hayekiano a suggestioni fasciste.