Mantenere le distanze è forse la prima e più incisiva lezione che abbiamo appreso durante l’emergenza sanitaria imposta dal Coronavirus. Una lezione, o forse un mantra, con cui conviviamo anche in questa nuova fase di lenta ripartenza.
Nella vita di ogni giorno ciò si traduce nel far convivere la necessità del distanziamento sociale con la ripresa della vita economica e sociale di un Paese.
Le sperimentazioni avviate finora hanno esiti differenti, ma il punto di partenza è comune: bisogna fare i conti con una concezione dello spazio (interno ed esterno) assolutamente nuova e radicalmente cambiata.
Dunque non è lo spazio in sé che cambia, bensì il modo di viverlo e di abitarlo alla luce dell’esigenza di rispettare le misure di sicurezza per la tutela della salute.
Ne discutiamo con Anna Claudia Bufo, architetto paesaggista.
Architetto Bufo, innanzitutto com’è e come dovrebbe essere lo spazio di una città per consentirci di rispettare il distanziamento sociale?
L’esperienza della pandemia ci ha restituito un desiderio di spazio pubblico ampio, flessibile ed eterogeneo in cui pedoni e ciclisti possano e debbano avere la precedenza sulle auto. Mai come adesso abbiamo necessità di orizzonti lunghi e larghi. Abbiamo imparato a riconquistare degli spazi che non vedevamo più perché troppo impegnati in una vita frenetica, ci siamo accorti degli spazi di prossimità, delle presenze del vicinato che abbiamo incominciato a riconoscere e abbiamo forse capito quanto può essere utile a noi stessi non isolarsi e fare comunità e sentirsi parte di progetto nel quale riconoscersi. Parte attiva. Provare a influenzare le scelte e fare richieste che poi si convertano in progetti. Spesso passeggiando nei 200 metri consentiti intorno al mio isolato, mi sono resa conto di come strade ad alto scorrimento fossero diventati boulevard per il passeggio, o piste per correre o andare in bicicletta e di come aree a parcheggio vuote si fossero trasformate in aree per il gioco. Credo che l’obiettivo a cui guardare oggi sia immaginare nuovi spazi per usi flessibili in modo da garantire ambiente e salute.
Secondo lei, le città italiane sono pronte? Facciamo qualche esempio.
Le città italiane devono essere pronte, è necessario un sforzo di razionalizzazione delle energie positive, non si è mai pronti per il cambiamento, alcune città europee ma anche italiane lavorano da anni per una rivoluzione urbana che metta al centro le esigenze delle persone e delle comunità spingendole a fare rete e a non sottovalutare la possibilità di cambiare. C’è una canzone a cui penso spesso: “Sono cambiamenti, solo se spaventano…”. Cambiare non è facile e spesso è molto faticoso, molto più che lasciare tutto invariato, ma occorre immaginare lo straordinario e non accontentarsi dell’ordinario, quello dobbiamo darlo per scontato e andare avanti. Le città che più ho avuto come riferimento e modello da sempre sono state Milano e Barcellona due città di cui sono follemente innamorata e in cui torno sempre con piacere, sono due città che non hanno paura di osare, città complesse che però ci hanno dimostrato che a piccoli passi, ma con decisioni prese al momento giusto si può cambiare il corso degli eventi. Non a tutti piaceranno le novità, ma pian piano se gli interventi saranno il risultato di una vera strategia i risultati si vedranno.
Bellezza, design ed eco-sostenibilità. Come si sposano questi elementi con l’idea del distanziamento sociale? Sarà una buona occasione per avviare o rafforzare alcune pratiche? Penso agli orti urbani…
La crisi nasconde sempre un’opportunità per cui sono convinta che la tendenza sarà quella di migliorare i processi, ma anche i progetti in un’ottica di sostenibilità ambientale e che garantisca il benessere dei cittadini. L’eco-design è una risposta possibile l’utilizzo di materiali atossici e riciclabili o riciclati una possibile strada probabilmente inizialmente più costosa e difficile, ma l’unica che può farci cambiare prospettiva e farci provare a lasciare una città migliore di quella che abbiamo trovato a chi verrà. Quando penso al rinnovamento penso all’economia circolare e alla possibilità che ogni cosa possa entrare in un circuito virtuoso, migliorando la vita degli altri. Durante questa pandemia abbiamo capito quanto le nostre azioni e le nostre scelte possano influenzare la vita degli altri e in generale la vivibilità di una città e dei suoi spazi. Penso che la parola responsabilità, sia quella che più rappresenta questo momento storico e che dovremmo tenere a mente, per vivere il prossimo futuro cercando di essere responsabili nei confronti degli altri e dell’ambiente in cui viviamo. La condivisione di esperienze e buone pratiche può e deve diventare una costante per migliorare i servizi della città che ognuno di noi abita e vive assumendosi la responsabilità della qualità dei suoi spazi e dell’aria che ogni giorno respiriamo.
Telelavoro, quarantena, didattica a distanza. In questi mesi abbiamo scoperto o riscoperto anche una nuova dimensione di casa. Dunque, alla luce di questa esperienza, potrebbe cambiare anche lo spazio abitativo. In che modo?
La casa è un tema su cui rifletto da sempre, che mi sta molto a cuore. Mi sono spesso interrogata sul suo senso e sul legame che impone e stabilisce. Casa è il luogo in cui cerchiamo riparo e conforto, casa è il luogo dove sentirsi liberi di essere se stessi e dove ritrovarsi, il luogo del focolare domestico intorno al quale confrontarsi. Lo spazio della casa è cambiato nel tempo e spesso prima della pandemia era il luogo in cui tornare dopo aver passato l’intera giornata fuori, durante la pandemia invece la vita si è svolta dentro e questo ha fatto si che ci fosse una inversione nel desiderio, perché si ha sempre la tendenza a desiderare ciò non si può avere e ciò che ci viene privato, per questo credo che il desiderio di spazio pubblico sia ai suoi massimi storici e sia il momento giusto per capire come ripensare gli spazi della città, ma anche gli spazi privati, in modo che possano essere più versatili e disponibili. Ognuno di noi si è reso conto di quanto sia importante la giusta illuminazione, la divisione degli spazi in modo da garantire privacy e silenzio durante le sessioni di smartworking, ma anche il lusso di avere un balcone magari con delle piante di cui prendersi cura e a cui prestare finalmente la giusta attenzione. Ho sempre pensato che progettare una casa sia come restituire uno spazio di libertà, non mi fido molto di chi ha case imbalsamate di chi non ha mai un oggetto fuori posto, credo che la casa vada vissuta e debba evolversi ed essere progettata per essere flessibile e mai immobile. È come mettersi continuamente in discussione, alla prova non bisogna mai smettere. Credo non si finisca mai di cambiare la propria casa, io stessa durante la pandemia, stanca di lavorare sullo stesso tavolo su cui mangiavo e lontana dalla luce che per me è fondamentale quando lavoro mi sono decisa a inventarmi una postazione di lavoro vicino alla finestra con delle gambe di un tavolo che avevo in balcone che avrei dovuto smaltire e una lastra, residuo della ristrutturazione del bagno, che è diventata il mio nuovo piano di lavoro, una lampada da scrivania, recuperata dallo studio di mio padre, il poster di una parte del fregio di Klimt nel palazzo della secessione a Vienna come sfondo e il gioco è fatto. Reinventare spazi e usi è l’opportunità cogliere.
Il balcone ha avuto un ruolo primario durante la quarantena, non solo per i flash-mob. Quanto peserà, secondo lei, questa esperienza sulla domanda e sull’offerta immobiliare, d’ora in poi?
Il balcone è una estensione naturale della casa di cui credo non si possa e non si debba fare a meno, anzi credo che chi non ha un balcone dovrebbe ricavarselo, sottraendo spazio alla casa, a volte non ci rendiamo conto di quanto sia importante avere uno spazio semi-privato o semi-pubblico, dipende da che punto si guarda, che ci consente di avere uno sguardo sul mondo, che possa essere un filtro tra noi e il resto del mondo senza essere un muro. Chiudersi non è utile credo sia il momento di aprirsi senza paura e di esporsi e il balcone mi pare una giusta metafora sia per la sua caratteristica di sbalzo sia per il suo equilibrio. Adoro allo stesso tempo le logge e i bow-window anche se spesso si traducono in terribili verande alle nostre latitudini, quello su cui credo bisognerebbe lavorare è la realizzazione di spazi accessori energeticamente sostenibili come le serre bioclimatiche che abbiano anche e soprattutto una qualità estetica e poi lavorare sulla necessità di estensioni verdi che possano coinvolgere non solo balconi, ma anche tetti. Abbiamo spazi sottoutilizzati che sono di tutti e sembrano non essere di nessuno, incominciare a capirlo mi sembra un buon presupposto per una inversione di tendenza, possibile e necessaria.
Solo chi è così folle da pensare di cambiare il mondo lo cambia davvero.