Per raccontare la parola “gentilezza”, potremmo fare tanti e straordinari viaggi nel tempo, scomodando – con il giusto timore – autori come Dante (celebre, da Inferno V, il verso “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”) o Guido Guinizzelli (autore della canzone “Al cor gentil rempaira sempre amore”). È evidente in questi versi la stretta relazione tra l’amore e la nobiltà d’animo: quest’ultima si manifesta appunto attraverso la gentilezza e non è una dote innata o legata a una certa tradizione familiare, ma si acquisisce coltivando virtù e valori morali. L’invito del Dolce Stilnovo a una nobiltà d’animo, più che di sangue, appare oggi attualissimo.
In un momento storico di grande odio, in cui le parole e le azioni sono tese a costruire muri invece che ponti, a chiudere porti invece che aprire i cuori, la gentilezza è una luce fioca che rischia di spegnersi, tra insulti sui social e parole cattive. Quella piccola luce è anche la nostra speranza per rinascere, una forza motrice che può guidarci non tanto a restare umani, quanto più precisamente a tornare ad esserlo.
L’aspetto più interessante della vicenda è che la gentilezza è una cosa molto semplice, che non conosce regole e non richiede grandi sforzi, poiché agisce nella dimensione del piccolo e trova nel quotidiano la sede prediletta per le sue epifanie: è in un caffè offerto, in un sorriso ricambiato, in un aiuto a chi lo chiede e a chi non lo chiede, ma ne ha bisogno. La gentilezza, infine, è una pratica che ci rende vivi, attivi e liberi, perché possiamo ancora sceglierla. Come espressione, come linguaggio, come modo di relazionarci agli altri.