C’è stato un prima e un dopo.
A giugno del 2001 avevo compiuto 17 anni. Da qualche mese avevo ripreso a frequentare gli scout e avevo sentito parlare per la prima volta di consumo critico, economia circolare, decrescita felice, sharing e green economy, commercio equo e solidale.
Volevamo capirne di più. Per parlarne, per fare progetti concreti, io e alcuni amici sentimmo parlare del G8 di luglio come di una grande occasione.
Le nostre vite in quegli anni erano un misto di ideali e indolenza. Voglia di condivisione e misantropia, voglia di conoscenza dell’Altro e paura di entrarci davvero in relazione.
Fu per questo motivo che decidemmo molto tardi di andare a Genova. Avevamo progettato quella che di lì a poco sarebbe stata la nostra prima esperienza di strada, di route, con gli scout. Sulle strade di san Francesco e alle Fosse Ardeatine a Roma. Ai valori e agli ideali astratti, quell’esperienza accostò la concretezza dell’esperienza dell’altro.
A Genova non andammo più perché intanto i black bloc si erano rivelati e i bus, ci dicevano, venivano rimandati indietro. I telegiornali riportavano solo di un clima di terrore e di violenza, erano completamente scomparsi i colori, le manifestazioni allegre, i confronti sui temi, le idee, la festa.
E poi è arrivato il 20 luglio. La morte di Carlo Giuliani veniva rappresentata come la tragedia capitata a un violento. Non si diceva nulla del poliziotto che gli aveva sparato. Pur accettando questa ipotesi, inizialmente, desideravo solo che tutto finisse: non solo le manifestazioni, ma soprattutto il G8. Dovevano fermarsi tutti perché era successa l’unica cosa che non doveva succedere.
In quella estate afosissima, la prima della mia vita che passavo in città, cominciai a compulsare il Televideo, ad ascoltare le edizioni straordinarie, a seguire alcune trasmissioni che parlavano di quello che stava accadendo. Pensavo che sarei potuto essere lì, che ci sarei andato credendo fosse una cosa non molto diversa dai cortei studenteschi cui partecipavo nella mia città. Magari solo più grande e divertente.
E poi è arrivato il 21 luglio. Il massacro della Diaz era irricevibile. Solo gente accecata dall’ideologia poteva sostenere la tesi dei poliziotti. Non avevamo ancora chiaro il livello di manipolazione dei fatti che era avvenuto, ma tutta quella violenza era impossibile da razionalizzare.
Le immagini di gente piena di sangue, gente che veniva trascinata via, colpita con ferocia, dolorante e in fin di vita. Cosa giustificava quella violenza? Quelle immagini le ho lasciate sospese, non elaborate fino alla visone del film “Diaz” di Daniele Vicari, solo undici anni dopo, quando avevo la maturità per elaborare l’accaduto.
Prima era avvenuta, per me, una sorta di “riabilitazione” della memoria di Carlo Giuliani, checché ne dicesse il principale sindacato della polizia che, con un falso senso di accerchiamento, ebbe anche a realizzare un incontro dall’infame titolo: “L’estintore quale strumento di pace”.
C’è il tema dell’impunità delle forze dell’ordine, tristemente attuale, e c’è il tema delle persone traumatizzate, ferite gravemente, completamente danneggiate dai colpi ricevuti. Avrei voluto che quella della “macelleria messicana” fosse rimasta una vecchia storia maledetta e invece è tremendamente attuale.
Da oltre un mese Internazionale pubblica un podcast sui fatti di Genova che si chiama “Limoni”. Ho scambiato alcuni messaggi con la sua autrice, Annalisa Camilli, che per le strade del capoluogo ligure ci è andata. Le ho detto che grazie al suo lavoro, tra le tante e importantissime cose, mi ha ricordato lo slogan dei No Global: “Voi G8, noi 6 miliardi!”.
Le ho proprio chiesto che cosa hanno fatto quei sei miliardi. Dov’è finita la generazione del G8? Non ne ho ritrovati molti a fare attivismo, e non è una critica negativa, ma una constatazione. Le sue risposte arriveranno nelle ultime puntate del podcast e sono sicuro che saranno convincenti.
Io ho fatto la scelta di un giornalismo precario e al limite della sopravvivenza, non mi ritengo particolarmente in gamba e nemmeno voglio esaltare la scelta di libertà e l’annessa retorica.
Nel 2004 insieme ad altri amici fondammo un’associazione ambientalista che aveva come mission non quella di opporsi a tutto, ma di proporre alternative concrete. Per esempio, la circolarità del ciclo dei rifiuti nel nostro ateneo, l’estensione di questa idea alle manifestazioni pubbliche di questo tipo.
Molte sono le voci del 2001 che ripetono, giustamente. “Avevamo ragione noi, avevamo capito e previsto tutto”. D’accordo, ma “Voi G8, noi 6 miliardi!”. Le nuove generazioni fanno della precarietà l’unico orizzonte possibile, la flessibilità è semplicemente un concetto indegno, è impossibile mettere su famiglia e i diritti di chiunque sono sotto assedio.
Si è parlato di quella del 2001 come della generazione perduta, incattivita poi dall’11 settembre, occupata a tirare a campare, scavalcata dal capitalismo globale perché ultima potatrice sana di consapevolezza sui diritti. Ma dove sono ora quei sei miliardi?
Forse vanno ritrovati nel vero lascito scritto nel sangue delle strade genovesi: chissà se davvero l’agire locale e il pensare globale hanno attecchito, ma di sicuro la coscienza per l’ambiente, la salute e forme alternative di economia ci sono. Forse basterebbe metterle al centro della ricerca di consenso.
Un altro mondo è possibile, cantavamo. Un altro mondo è ancora possibile?