Il dizionario ci dice che l’emancipazione è l’azione di emanciparsi, cioè liberarsi da obblighi e costrizioni, per ottenere il riconoscimento dei propri diritti.
L’emancipazione, dunque, è un processo, un fatto in divenire, qualcosa che ha avuto una sua origine in un dato contesto fisico e temporale e che probabilmente, in alcuni casi, non ha ancora raggiunto il suo punto finale.
Emancipazione è, insomma, una parola in movimento. Una bella parola che ha la capacità straordinaria di parlarci contemporaneamente di grammatica, di storia, di politica, di etica. Una vetrina di tredici lettere con cui partecipiamo all’evolversi di un fenomeno che nei secoli ha riguardato gli schiavi, le persone sottomesse, le etnie considerate minoritarie, le donne.
Oggi ha un particolare significato soffermarci sull’emancipazione delle donne. Il 25 novembre, infatti, si celebra la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”, una ricorrenza istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per mantenere sempre alta l’attenzione su questo fenomeno che ha numeri e derive davvero preoccupanti in tutti i Paesi del mondo.
L’emancipazione femminile – che pure è una delle pagine più affascinanti e importanti nella storia delle battaglie per i diritti civili – ci chiede oggi un ultimo sforzo. Infatti, molte delle violenze sulle donne derivano dalla persistenza di assurdi stereotipi e discriminazioni di genere, che provano ancora a raccontare la storiella di un sesso debole, incapace di leadership e talento, deputato a limitate azioni domestiche. È una storiella che ci ha stancato, che ha provato a ingannarci nel tempo, ma che adesso – davvero – non regge più.