Abbiamo già affrontato differenti temi legati alle disabilità, cosmo variegato di esperienze e problematiche, e tra i tanti fenomeni se ne registra uno che tocca molte donne con disabilità, discriminate perché donne e perché disabili, con conseguenze pesanti per coloro che subiscono questi atteggiamenti. Per relazionare sul tema, il 10 Giugno la FISH, Federazione Italiana Superamento Handicap, è stata ricevuta in audizione al Senato presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio.
La FISH sottolinea che nel rapporto di valutazione delle misure messe in atto dall’Italia per attuare la Convenzione di Istanbul si sono richieste azioni concrete “per proteggere le donne con disabilità da ogni forma di violenza”. Ma passiamo ad analizzare il fenomeno. I dati della seconda edizione di VERA, Violence Emergence, Recognition and Awareness, indagine realizzata dalla FISH in collaborazione con Differenza Donna, indicano che la forma di violenza più ricorrente è quella psicologica (51,4% del campione), seguita da quella sessuale (34,6%), dalla violenza fisica (14.4%) e quella economica (7,2%)”.
Quest’indagine fa luce su un fenomeno ancora poco studiato e che resta sommerso, come la vessazione psicologica e la costrizione in uno stato di subalternità. Tra i dati riportati, colpisce come ad esempio sia ricorrente l’insulto, la svalutazione e l’umiliazione che il 49% delle donne intervistate ha subito almeno una volta.
Si accennava anche ad una forma di “violenza economica”, che molto ha a che fare con l’autodeterminazione della persona, infatti si tratta di donne alle quali viene negata la possibilità di gestire il denaro e di accedere agli strumenti di affermazione e realizzazione personale. La violenza psicologica resta però la più difficile da riconoscere e denunciare. Un altro aspetto importante è quello legato alla consapevolezza della violenza subita.
Nelle valutazioni che accompagnano lo studio leggiamo che “delle 486 donne che costituiscono il campione solo 172 riconoscono la singola forma di violenza”, mentre una su quattro non ne è ancora consapevole.
Gruppo donne Uildm
Su questi argomenti abbiamo chiesto un commento al “gruppo donne” della UILDM – Unione Italiana per la Lotta alla Distrofia Muscolare – organizzazione che quest’anno compie sessant’anni di attività, ramificata su tutto il territorio nazionale e che offre vari servizi come interlocuzione istituzionale, sportello legale e supporto psicologico.
Silvia Lisena, giovane attivista per i diritti delle donne con disabilità, sottolinea: «il tema della discriminazione di genere tra le donne con disabilità è meritevole di molta attenzione. Nelle stesse associazioni e negli organi preposti a combattere la violenza di genere non vi è molta consapevolezza di questo fenomeno. Ciò avviene perché la “multidiscriminazione”, per arrivare alla violenza fisica e psicologica delle donne disabili, segue una sua dinamica non sempre riconosciuta, che andrebbe affrontata adeguatamente. Spesso è all’interno delle famiglie che ciò avviene, anche se il fenomeno è diffuso anche all’interno delle agenzie educative».
Ma guardando i dati che evidenziano l’aspetto della vessazione psicologica, viene da chiedersi quale consapevolezza c’è tra le donne disabili. Lisena specifica che «la violenza psicologica non è ancora del tutto analizzata e supportata. Manca quel tipo di sostegno alle donne colpite da tale fenomeno. Le donne in generale, disabili in particolare, sentono, temono per certi versi, di non essere comprese perché vi è anche poca formazione degli operatori dei centri antiviolenza al fenomeno. Occorre dire che anche come possibilità di accesso a tali servizi vi sono delle criticità, spesso legate all’accessibilità, non solo quella fisica, ma anche ad esempio l’assenza dell’interpretariato in LIS», e conclude: «auspichiamo che vi siano molti più ambulatori dedicati alle donne con disabilità. Occorre incrementare tali servizi, accrescendo il numero di strutture da aggiungere a quei pochi esempi già presenti sul territorio nazionale, come il progetto “Fiori di loto” di Torino».
Francesca Arcadu, fondatrice, più di vent’anni fa, del gruppo donne UILDM, precisa sull’aspetto dell’accesso ai servizi sanitari dedicati: «l’osservatorio su l’accessibilità degli ambulatori ginecologici, attività di ricerca condotta nel 2013 e ripresa di recente, ci dice che molti di essi non sono attrezzati per accogliere le donne con disabilità, tanto per i servizi di base, ossia tutte quelle visite che fanno parte della routine, quanto per le problematiche particolari o i percorsi legati alla medicina riproduttiva e della salute sessuale»».
Risulta peculiare la chiave di lettura che emerge dal racconto di Arcadu: «Questo avviene perché le donne disabili sono individuate come soggetti asessuati, mentre è importante la nostra sessualità, l’essere donne. Per questa percezione si verifica il fatto che vi sono dei centri di medicina riproduttiva che, oltre a non essere adatti all’accoglienza delle donne disabili, eludono il desiderio che queste donne hanno di avvicinarsi alla genitorialità. Questo per dire come anche dal punto di vista culturale si riscontrano delle difficoltà nell’accettare questa volontà di autoaffermarsi come donne in quei contesti più ad esse vicini».