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Donne caregiver, più diritti contro squilibrio sociale e patriarcato

Donne caregiver, più diritti contro squilibrio sociale e patriarcato

La condizione del caregiver, che in Italia andrebbe più correttamente declinata al femminile, riguarda tutti quei familiari che si occupano non professionalmente della cura dei loro cari, spesso disabili gravi ed anziani. La stima ISTAT del fenomeno vede più di 7,3 milioni di persone impegnate stabilmente in attività del genere, come ricordato a febbraio scorso da un dossier presentato alla Camera dei Deputati.

Questo tema è emerso anche durante l’annunciata manifestazione del 25 settembre scorso, organizzata dall’Assemblea delle Magnolie per parlare di PNRR e cura nella prospettiva di genere, appuntamento che ha preso un’altra piega anche alla luce delle recenti vicende afgane, come raccontato, tra le altre, da Giovanna Casadio  su Repubblica.

In piazza del popolo abbiamo dialogato con Maria Antonietta Scognamiglio, attivista pisana e caregiver, che dal palco ha ricordato lo scollamento culturale rispetto a questo tema nella disparità di genere, nel più generale quadro di solidarietà alle donne afgane e al loro messaggio di speranza per la lotta di resistenza delle quali sono protagoniste e contro ogni forma di patriarcato.

Una prima battuta va allo stigma ricordato nel suo intervento, che vede la donna come unica predestinata al ruolo di caregiver. «Volevo rappresentare una realtà che non è molto conosciuta, ossia come La maggior parte dei caregiver in Italia sono donne. Questa condizione porta a grandi rinunce, perché si fanno carico dei figli, oltre che frequentemente anche di familiari anziani.  Mi chiedo perché non valorizzare questa figura, magari aiutandola con maggiori servizi o una remunerazione figurativa. Spesso la donna è costretta a lasciare il lavoro per assolvere alla sua funzione di caregiver».

Situazione aggravata, specifica subito Scognamiglio, dall’attuale crisi. «Si può oggi constatare come le donne, durante la pandemia, hanno lavorato anche quadruplicando le forze, perché tutte le figure di supporto alla cura non potevano entrare nelle case. Occorre pertanto un cambio culturale, perché la donna non deve essere destinata in via esclusiva alla funzione di caregiver, ma deve poter mantenere vive le proprie idee, valori e aspettative, oltre che coltivare la cura di sé. Molte donne non vanno nemmeno più a fare visite sanitarie o non riescono a dedicare pochi minuti per la cura della propria persona. Tutto questo è un qualcosa che snatura la famiglia, provocando spesso problemi molto seri. Tutto ciò alla fine si ripercuote sui destinatari della presa in cura. Prendiamo dunque questa consapevolezza a livello sociale e restituiamo qualcosa a chi svolge tale funzione, riconosciamo loro dei diritti».

Come si manifesta questo squilibrio a svantaggio delle donne? «L’indice rappresenta una presa di posizione culturale de facto di questa disparità. Contro le cinque ore in media quotidiane destinate dalle donne, un uomo ne impiega in media un’ora e quarantotto minuti. A livello sociale si è interiorizzato il principio che sia la donna a doverlo fare, non solo perché ne è capace. Anche tanti uomini sono in grado, ma è un sistema culturale in cui la donna, oltre al proprio lavoro e alla cura della famiglia, deve assolvere al compito di caregiver anche di persone anziane o più fragili. Su questo ci vuole una parità, perché la famiglia è composta in maniera paritetica da più persone, se consideriamo anche altri figli, e tale parità può permettere di mantenere la famiglia più compatta, unita e coesa e più in grado di chiedere aiuto quando c’è bisogno di servizi».

Dove risiedono gli ostacoli per eliminare lo squilibrio di genere?  «La condizione femminile in Italia ci racconta che vi sono già tanti ostacoli anche al diritto al lavoro delle donne. Sul lavoro c’è infatti un grande problema, come la mancanza di asili nido. Ed è proprio sulla mancanza di questi servizi che alleggeriscono il ruolo delle donne che occorre avviare una riflessione seria sul tema».

Redazione

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