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Carcere e disagio psichiatrico, una relazione malata da riformare

Le recenti vicende giudiziarie di Fabrizio Corona hanno riaperto la questione del disagio psichiatrico in relazione alla detenzione in carcere, sino a spingere il Partito Radicale a rivolgere un appello ai ministri della Giustizia e della Salute. Partendo dai recenti dati elaborati da Antigone nel suo rapporto “Carcere e Covid”  del novembre 2020, ne parliamo con Angela Furlan, avvocata e presidente dell’associazione Superminus di Roma, impegnata nella tutela dei diritti in chiave antidiscriminatoria.

Angela Furlan, Superminus

Angela Furlan, presidente Superminus

Qual è l’esigenza che accompagna un appello sul tema del disagio psichiatrico in carcere?
La questione parte dalla riforma Basaglia, passando poi dalla legge 81 del 2014 (istitutiva delle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Si tratta però di processi di riforma che richiedono del tempo. l’importanza dell’appello del Partito Radicale rivolto ai ministri Cartabia e Speranza è quello di riportare la giusta attenzione della politica, in primis, e dei media e dell’opinione pubblica su un tema che in qualche modo dal 2015 è stato abbandonato. La legge istitutiva delle REMS è chiaramente uno degli step del processo di riforma, perché esse sono ontologicamente transitorie, presto destinate a venire meno, altrimenti non si capirebbe la differenza con gli ospedali psichiatrici giudiziari, aboliti da quella stessa normativa.

Per scendere nel dettaglio, qual è la relazione tra detenzione e disagio psichiatrico?
La “febbre” delle carceri in Italia è sempre altissima. Il Covid non ha fatto che peggiorare ulteriormente questo quadro. Il coronavirus ha portato alla luce quelle che erano le criticità strutturali e sistemiche del Paese, come quello delle carceri. I dati evidenziati dall’ultimo rapporto di Antigone fanno spavento, anche sotto l’aspetto del disagio psichiatrico. Ad esempio, nel caso del penitenziario di Spoleto il 97% dei detenuti è afflitto da tali problematiche, un dato che corrisponde alla quasi totalità della popolazione carceraria. Il carcere è di per sé un luogo del disagio. Tutti noi, anche senza mai esservi entrati, al solo pensiero proviamo un certo senso di oppressione, già solo nell’ipotizzare il passarvi del tempo. Per questo motivo è intuibile come coloro che vi entrano, nonostante che da persone libere non abusassero di
sostanze, una volta dentro è verosimile che, già per la sola condizione alienante della vita in carcere, induca una persona sana ad abusare di psicofarmaci. Questo aspetto poi è fondamentale perché tocca a sua volta un tasto dolente, quale quello della dipendenza.

Il riconoscimento del disagio psichiatrico rischia di far venire meno la certezza della pena?
Il carcere non può più essere considerato un luogo idoneo solo per l’espiazione della pena, perché si rischia così di affermare una mera “vendetta dello Stato”. Questo non significa che vi debba essere il “liberi tutti”, senza la certezza della pena o la negazione della certezza del diritto. Ma occorre riaffermare il concetto costituzionale che la pena deve essere “rieducativa”. Nel carcere il detenuto o la detenuta passa intere giornate senza svolgere alcuna attività, spesso in contesti di degrado sul piano igienico-sanitario o di idoneità degli edifici, caratterizzati da un sovraffollamento sconcertante. Tutto ciò urta con la dimensione rieducativa della pena, intesa come una nuova inclusione sociale. Ricordiamoci che queste persone sono lì per scontare una condanna per lo più temporanea. Qui mi riallaccio a una questione da
me ritenuta molto importante, nell’ottica della relazione tra disagio psichiatrico e istituzionalizzazione delle persone. Il percorso intrapreso nel 1978 da Basaglia era concentrato verso la prospettiva di deistituzionalizzazione delle persone; è evidente che con gli odierni dati, quarantatré anni dopo quel percorso, gli
istituti penitenziari o di salute mentale non sono evidentemente luoghi idonei a risolvere né i problemi di tipo psichiatrico, né tanto meno per scontare una pena in chiave rieducativa, proprio perché istituzionalizzanti.

*in cover foto di Hans Eiskonen su Unsplash
Redazione

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