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Cos’è il budget di salute e come influisce sull’approccio al disagio mentale

Le risorse destinate alla sanità nel PNRR sono al centro del dibattito per la quantità di fondi previsti e per la qualità degli interventi. Nelle scorse settimane molti organismi operanti nell’ambito della salute mentale hanno denunciato una totale assenza di attenzione verso questo settore. Ne parliamo con Edgardo Reali, psicoterapeuta del settore pubblico a Roma, il quale ci racconta anche delle nuove frontiere della riabilitazione psichiatrica partendo da un aneddoto sulla sua famiglia: «Sono figlio di uno psichiatra e di una insegnante di sostegno, quindi ben prima della carriera universitaria ho imparato a relazionarmi con persone che avevano un disagio mentale. La famiglia mi ha ispirato nel modo di lavorare come psicologo, in quanto molto legata alla figura di Franco Basaglia e al suo lavoro di trasformazione delle istituzioni».

Edgardo Reali, psichiatra

Edgardo Reali

Come si concilia l’opera di Basaglia negli interventi di psicoterapia?
Nella psicoterapia l’approccio basagliano si configura come una modalità di lavoro che potrei definire di nicchia, non ancora diffuso tra i professionisti, perché legato ad una profonda rigenerazione delle persone e dei contesti, sottintendendo ad una trasformazione culturale delle professioni in ambito di salute mentale. Quello “post-razionalista” è un modo di approcciarsi che fatica ad entrare nelle università, non risultando ancora molto diffuso nella formazione dei professionisti della salute mentale.

Puoi spiegarci meglio questa visione?
L’approccio post-razionalista nasce in ambito di ricerca e di dialogo tra diverse discipline, come la fenomenologia, le neuroscienze e la psicologia cognitiva. Sin dagli studi universitari mi sono interessato all’approccio fenomenologico perché è quello usato dallo stesso Basaglia; si pensi che quando egli era studente a Padova, veniva chiamato “il filosofo”, perché criticava fortemente l’impostazione positivista in ambito di scienze umane. All’epoca vi era un dibattito acceso tra psicologi e psichiatri tra un approccio umanistico e uno più scientifico. Quest’ultimo vedeva nel disagio mentale un mero malfunzionamento del cervello.; ad esso si contrapponeva un approccio più esistenziale, che indagava la persona dietro il malato.

Perché scegliere quest’approccio come strumento di riabilitazione?
Ho scelto quello post-razionalista come metodo di lavoro perché mette in dialogo questi due visioni attraverso lo studio dell’esperienza delle persone. Inoltre vi sono state una serie di scoperte che rendono questa contrapposizione non più attuale. Ad un certo momento ci si accorge che il cervello si modifica a partire dalle esperienze, la cosiddetta “epigenetica“, con un’implicazione importante nella riabilitazione psichiatrica. La seconda grande scoperta si riferisce ai “neuroni specchio”, ritenuti fondamentali perché mettono al centro dei processi comportamentali e di apprendimento la sfera interpersonale. Per tornare alla domanda sul perché ho scelto quest’approccio, volevo sottolineare che per “post-razionalista” si intende un “post” qualcosa. La differenza è nel fatto che nell’approccio razionalista si vede l’essere umano come un oggetto, usando lo stesso metodo per studiare una sedia e un uomo, nel secondo si supera questa visione perché la persona è sempre un chi, ovvero si muove in un contesto esistenziale che fondamentalmente è la cornice pratica in cui si emoziona. Nel momento in cui ho una diagnosi so qualcosa in più del suo vissuto; essa però non racconta fino in fondo della persona, mentre nel nostro approccio l’esperienza all’esistenza è al centro. Quando vi sono dei sintomi noi attuiamo un monitoraggio sull’esperienza del singolo. Il sintomo non è un prodotto di un cervello malfunzionante, ma deriva dalla storia di vita di quella persona.

Quali strumenti vengono usati nei percorsi riabilitativi proposti secondo quest’impostazione?
Nel momento in cui la persona è al primo posto nell’intervento di cura, l’aspetto principale è il suo coinvolgimento diretto per affrontare le sfide esistenziali. In questo cura e riabilitazione coincidono; sono importanti da evidenziare tre contesti utili a costruire un percorso riabilitativo efficace: socialità, formazione e lavoro. La prima è da riferirsi alla rete informale e formale attorno alla persona per evitare l’istituzionalizzazione, le crisi e le ricadute. Come strumenti della socialità usiamo laboratori espressivi, perché aiutano a strutturare un punto di vista proprio sulle cose. La formazione è importante perché fondamentale è l’esistenza dei contesti intermedi che preparino la persona ad affrontare lo stress, anche se esiste la possibilità del riaffiorare dei sintomi, circostanza attenuata da esperienze formative protette. Al contrario, per il lavoro l’importante è che esso non si svolga in contesti protetti, per sfuggire alla logica di istituzionalizzazione, abituandosi così ad affrontare la vita e le relazioni. Il problema reale è costituito comunque dalla possibile ricaduta. Anche gli operatori perciò devono uscire dalle strutture protette, collaborando con la comunità ospitante, per costruire un tipo di esperienza lavorativa sostenibile per la persona, agendo su una cultura diversa, quella dell’inclusione, per affrontare paura e stigma e pregiudizio attorno al disagio mentale.

Considerando le difficoltà strutturali della nostra economia e, nello specifico, del mercato del lavoro, con quale prospettiva si può guardare ad una completa integrazione nel tessuto lavorativo di persone con disagio mentale?
Prima accennavo al livello multidisciplinare dell’approccio seguito; qui interviene un elemento fondamentale, rappresentato dall’economia circolare, ovvero dalla capacità di generare processi fuori dalla competitività. L’idea che sottende all’inclusività di questo modello è quella di sviluppare delle economie sostenibili, dove vengono superate le classiche dinamiche di mercato per valorizzare dei nuovi criteri, come il “budget di salute” o la territorialità, cioè il fatto che la persona può usufruire sull’asse della socialità di enti che svolgono servizi in tal senso.

Si tratta indubbiamente di una visione “rivoluzionaria”, ma quali sono le difficoltà a livello istituzionale per rendere pratico questo modello?
Le difficoltà rispetto alle istituzioni ci sono perché esse sono in crisi, sia per carenza di personale sia per l’arretratezza logistica. Con quest’ultimo aspetto mi riferisco al modello territoriale, che è in crisi, perché la sanità è nei fatti “ospedalocentrica”, anche in ambito di salute mentale. Su questo vorrei essere ancora più chiaro: in assenza di misure distribuite sul territorio si lavora costantemente in emergenza; questo porta alla costituzione di molte reti di cliniche private per far fronte alla stessa emergenza che vive il settore della sanità pubblica, ma con una grande distrazione di risorse utili alla prevenzione.

Qual è il tuo punto di vista sulla denuncia di molte organizzazioni di poca attenzione a questo ambito negli stanziamenti sanitari del PNRR?
Rispetto alle risorse previste la questione è da valutarsi nel corso dei cinque anni in cui arriveranno i fondi. Su alcune cose quel documento è vincolante, ma per i singoli interventi è in via di definizione e programmazione. A questo dibattito assisteremo nei prossimi cinque anni a causa del confronto continuo su come spendere i fondi che annualmente arriveranno.

Per concludere, quale l’auspicio per il futuro rispetto al riadeguamento dei servizi per la salute mentale?
L’auspicio è che si tenga conto di un approccio come quello del budget di salute, ovvero il fatto che si veda una persona con disabilità non come un costo, bensì come un soggetto attorno al quale si può generare un’economia virtuosa che risponda ai suoi bisogni, con un impatto positivo su tutta la comunità.

*in cover foto di Emma Simpson su Unsplash
Redazione

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