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Ippocrate e l’arte della cura. Conversazione con Isabella Bignozzi

[…] L’umiltà di non considerarti mai compiuto, e il tormento di amare intensamente gli altri, che tu consideri ostacoli, non sono altro che pregi: benché ti procurino a volte sofferenza, sono in realtà i tuoi alleati più preziosi nel diventare un bravo medico […].

Questo breve estratto dal romanzo Il segreto di Ippocrate [La lepre Edizioni, 2020] di Isabella Bignozzi, medico e scrittrice, introduce la nostra conversazione sul tema della cura che in Ippocrate ha la sua figura iconica.

Il medico è colui che cura. Dagli Sciamani a oggi come è cambiato il ruolo del medico nella società e nella percezione delle persone?
È necessario fare una riflessione, in quest’ambito, sul concetto di malattia e sofferenza, poiché il mutare del ruolo del medico ne è – a mio avviso – lo specchio. La nostra attuale società considera il male semplicemente uno dei tanti problemi concreti da risolvere prontamente con la conoscenza e con la tecnica. Ma non era così nell’antichità: dalle civiltà tribali più arcaiche a quelle egizia e greca antica, l’uomo si interrogava maggiormente sul significato dell’infermità, attribuendo a questa condizione un portato di simbolo, che aveva a che vedere con la presenza divina nella vita dell’uomo.
Nella mentalità tecnologica contemporanea qualsiasi malessere psicofisico va eliminato, secondo il concetto di allontanamento del fastidio e soddisfacimento del desiderio che è alla base del consumismo; accade allora che, quando la medicina, con tutto il suo patrimonio di conoscenze, competenze tecniche, ausili diagnostici e terapeutici afferenti alla più sofisticata tecnologia, non riesce a risolvere la sofferenza, il senso comune è quello di grande frustrazione o addirittura di negazione di efficacia; l’insuccesso viene vissuto come un tradimento, da parte della scienza medica o del singolo terapeuta, con esiti di contenzioso legale (la presunzione del dolo) o di allontanamento dalla medicina ufficiale.
Tutto questo però non va condannato ma interpretato. Si tratta, nel mio sentire, di una profonda nostalgia della Cura nel senso più alto del termine, quella cura che presso gli antichi, con ingenuità, prendeva in carico l’intera persona, la sua ferita, e indagava anche con un’intima ricerca di senso la sofferenza inflitta all’uomo da entità superiori.
L’approccio alla malattia nelle civiltà antiche era infatti di natura teurgica, cioè dal punto di vista della causa si pensava che la malattia provenisse dalla divinità, che aveva deciso di segnare un individuo con un’impotenza funzionale, una deformità, una pena. Allo stesso modo la cura e la guarigione invocavano a sé il soprannaturale come presenza numinosa, e il guaritore non poteva che essere un sacerdote (oppure, secondo le civiltà, uno stregone o uno sciamano), mentre il luogo della cura era un territorio sacro, tipicamente un tempio.
L’arte medica della Grecia antica è figlia di quella egizia, ed entrambe avevano una forte valenza di arte sacra: i malati venivano accolti negli Asklepieion, dove il malato che cercava sollievo veniva sottoposto ad alcuni riti preliminari (digiuni prolungati, purificazioni, abluzioni e unzioni) e vi passava la notte, durante la quale il dio appariva in sogno e prescriveva i rimedi necessari. Il giorno successivo il malato raccontava la sua visione e veniva sottoposto al trattamento ordinato.
Durante l’epoca classica, oltre alla medicina teurgica vedeva però i primi albori una nuova scienza basata sulle speculazioni dei filosofi. Tali studiosi studiavano la natura, e osservavano il mondo animale, facendo congetture sulle malattie degli uomini. È in questa temperie che si sviluppa la medicina di Ippocrate, che non è propriamente il fondatore della medicina, ma che rimane una pietra miliare nell’arte della cura, per la sua scelta di distaccarsi dalla visione sacerdotale e per l’aver posto le basi di un primordiale metodo scientifico.
Nei secoli successivi, la valenza di arte sacra venne perduta sempre più. In epoca ellenistica, fiorirono molte scuole, e in seguito Galeno fu uno dei massimi estimatori e studiosi dell’opera di Ippocrate; nell’antica Roma nacquero dei prototipi di ospedale, denominati “valetudinaria”, che assolvevano il compito di medicare i soldati malati o feriti in battaglia; la medicina si praticava inoltre nelle ricche “domus” per il ceto abbiente e la nobiltà, oppure nei templi, ma solo per la plebe.
In epoca medievale erano i conventi ad avere un ospizio dove si accoglievano i malati e i poveri. I monasteri in quel periodo storico erano il punto di riferimento di molte cose, tra le quali l’accoglienza e il soccorso; ma la figura del medico era sfumata e assente, ed erano i monaci ad assistere il malato, a trascrivere i trattati e studiare, sperimentando medicamenti tratti dalle erbe, scoprendo ad esempio la Digitalis purpurea, utile per regolare il ritmo dei battiti cardiaci.
Nel basso medioevo rinascono le città, e sorgono i primi ospedali e i lazzaretti per appestati e lebbrosi, ma ancora una volta l’assistenza è affidata a religiosi o adepti alle confraternite, e la cura è opera di misericordia, mentre il medico come professionista è una figura pressoché assente.
Un aspetto interessante del cristianesimo nei confronti della malattia è la speranza. La medicina medievale, che pure sapeva di essere impotente nei confronti di molti malanni e della stessa morte, vede comunque nella cura una salvezza, che raggiunge sia chi riceve sia chi offre aiuto: ciò che va perseguito è la vera salus, salute fisica e guarigione spirituale, ritrovata integrità morale e psicologica. Nel medioevo dunque si fondono due percezioni: si riconoscono le origini naturali delle malattie, ma si collega la presenza del male al limite umano, alla costitutiva finitezza dell’individuo al cospetto di Dio.
In epoca rinascimentale e barocca c’è un salto verso il razionalismo, e si rinnova l’interesse verso gli studi anatomici, realizzati con le dissezioni dei cadaveri. Si vanno sempre più separando i concetti di mente e corpo (la res cogitans dalla res extensa di Cartesio), mentre Galileo delinea la verifica sperimentale come base del metodo scientifico. Il medico assume il profilo di scienziato-ricercatore che ha poco contatto con il malato, e l’assistenza è ancora affidata a infermieri, spesso religiosi o volontari.
La mentalità illuministica e la rivoluzione francese portano poi con sé l’idea che ogni uomo abbia diritto alla salute; è così che, nell’ottocento e novecento, l’assistenza sanitaria diviene gradualmente un’incombenza dello Stato; nell’ottocento inoltre l’introduzione nella pratica di alcuni fondamentali strumenti diagnostici (come lo stetoscopio o le radiografie), e la scoperta e produzione di farmaci e vaccini (uno per tutti la penicillina) aumenta lo spettro delle malattie diagnosticabili e guaribili, così come la sintesi di gas anestetici dà grande impulso alle pratiche chirurgiche. L’introduzione dell’apparato strumentale conferisce oggettività alla comprensione dei fenomeni, limitando gli errori dovuti alla soggettività del giudizio del medico, ma è anche una nuova presenza materiale che si frappone tra medico e paziente: nelle sue estreme conseguenze, nella medicina attuale, se diagnosi prima tortuose o impossibili sono divenute rapide e precise, può però accadere che il medico, soverchiato dai dati, sia più dedito a guardare i reperti diagnostici strumentali che a stabilire un vero contatto di osservazione e dialogo con il paziente.
In generale, la crescita esponenziale delle facilitazioni (apparecchiature di diagnosi, tecniche chirurgiche, molecole farmacologiche, supporti tecnologici sempre più avanzati), evolvendosi nelle sue conseguenze, ha portato alla medicina odierna, in cui l’organismo umano è conosciuto nella struttura e nel funzionamento fino alle sue parti più infinitesime, e persino i codici genetici sono stati mappati; in cui molte procedure sono state automatizzate, digitalizzate, persino robotizzate; in cui i benefici al singolo e le possibilità di cura si sono moltiplicate esponenzialmente; in cui però si è aperto il rischio di riduzionismo biologico, che considera l’uomo come un insieme di organi indipendenti, ognuno dei quali va semplicemente ripristinato meccanicamente o chimicamente nella sua funzione.
Ora, se si suppone che la malattia sia soltanto dolore o impotenza funzionale, allora tra bisogno e sapere tecnico-scientifico ci può essere totale corrispondenza. Se invece, come accade, nel male è coinvolta tutta la persona umana, allora la malattia assume i tratti più ampi della sofferenza, e tale condizione richiede una risposta più partecipata e articolata da parte del terapeuta. Nel considerare la malattia come qualcosa di bidimensionale, il rischio è quello di scivolare in una iperspecializzazione indirizzata a parti del corpo sempre più piccole, e di fare dell’organismo una macchina a ingranaggi, smarrendo la percezione d’insieme della creatura senziente, e l’attenzione alle sue condizioni psichiche e morali.
Una concezione così riduttiva ha importantissime implicazioni anche a livello politico, sociale, economico. Se infatti la società contemporanea persegue un diritto alla salute che sia a carico dello Stato, questo, insieme a una concezione meccanicistica della guarigione, accentua la tendenza a ridurre la cura a funzione tecnica, da svolgere con rapidità, efficienza economica, e con il minor impiego di risorse possibili.
Questo può, in alcuni casi, non rispondere ai bisogni profondi del malato, il quale non sente solo il dolore o l’impotenza fisica, ma anche lo spavento, il bisogno di conforto, il desiderio di trovare un senso a quello che gli accade.
Ancor di più, l’uomo moderno nel male è terribilmente smarrito e inesaudito, perché la distanza tra noi e l’antichità, nel concetto di malattia e di medicina, è abissale: gli antichi, da un punto di vista filosofico, consideravano che tragicità e sofferenza fossero nella natura pervasive e inevitabili, e percepivano l’universo come un’entità dinamica, divergente in sé stessa, intrisa di vita e morte insieme; distruzione e generazione, dolore e felicità erano compresenti, pulsanti, ed esprimevano una stessa multiforme, splendida realtà. Tale dialettica era una pura legge cosmica che non portava in sé il germe di alcuna espiazione, ma piuttosto quello di una saggezza che avvicinava l’essere umano alla percezione ultima, seppur sfumata, dell’enigma dell’esistenza. Forse in parte questa visione andrebbe recuperata, così come, collateralmente alle terapie d’avanguardia, andrebbe riesplorato e rivisitato il concetto di Cura, nelle sue più alte manifestazioni.

Ippocrate è una figura iconica. Com’è nato in te il desiderio di raccontare la sua vita e di raccontare soprattutto il percorso che lo ha portato a diventare medico?
L’idea del romanzo è nata dalla lettura delle opere di arte medica di Ippocrate, che ho trovato disponibili nel web (in particolare il Corpus Hippocraticum, compendio di tutte le opere attribuite a Ippocrate – a torto o a ragione – e raccolte da Émile Littré in: Hippocrate. Oeuvres Completes, Jean-Baptiste Baillière, 1839). All’inizio non avevo alcuna intenzione di scrittura, mi guidava solo la curiosità.
Ho svolto per molti anni la professione odontoiatrica, ho avuta una lunga frequentazione universitaria e ospedaliera, e un mio studio privato per lungo tempo. Nei miei anni di attività clinica ho avuto la fortuna di avere molte soddisfazioni e innumerevoli difficoltà, incontri più o meno positivi, riflessioni accorate sul mio lavoro; su questo sfondo variegato, il nome di Ippocrate a volte riecheggiava nei miei pensieri, lo vivevo come un simbolo etico, avendo conosciuto le sue parole alte nel giuramento che ogni medico fa a inizio carriera; era dunque per me una specie di padre spirituale.
La pura curiosità mi ha spinto a leggere per esteso i suoi scritti e a sviluppare una strana amicizia a distanza con questo grande sapiente vissuto venticinque secoli prima di me. L’ho sentito vicino, come se lo conoscessi personalmente. E ho voluto dargli un volto, delle vicende, dei pensieri. È venuto tutto in modo molto naturale.
Va detto che i suoi trattati sono per la maggior parte di natura molto tecnica: parlano di febbri, di epidemie, di umori; di pozioni, unguenti, suffumigi; di antichi anestetici e manovre chirurgiche. Sono anche frammentari, spesso, e sibillini, per il gran numero di secoli che intercorrono tra noi e l’età greca classica durante la quale sono stati redatti.
Ma sentivo in essi una voce di fondo, riflessiva, attenta al paziente, rispettosa. Una voce che mi ha confortato e, infine, conquistato. Nel rispetto di un’ampia documentazione storica da me consultata, ma facendo uso – laddove necessario per mancanza di informazioni – della mia immaginazione, nel corso di circa un anno è nato il romanzo.

Stiamo vivendo una rinascita dopo una pandemia che ci ha colti impreparati. Nella storia dell’uomo, tuttavia, eventi di questo tipo si sono verificati molte volte in diverse epoche storiche. Secondo te qual è il loro ruolo nello scacchiere di madre natura e quale spunto di riflessione sul senso della vita ci offrono?
Purtroppo sì, ci troviamo in un momento storico particolare, della cui portata a lungo termine forse non siamo ancora pienamente consapevoli. Alcune persone hanno indicibilmente sofferto – a causa di reali fragilità fisiche o psichiche – l’isolamento forzato, la mancanza di assistenza, l’interruzione di alcuni servizi o attività, e hanno finito col pagare, in termini psicologici ma anche concreti, un prezzo altissimo. Molte debolezze umane, apparentemente archiviate dalla tecnologia, alleviate dal progresso scientifico o attutite dal consumismo che ottenebra i nostri giorni, sono riemerse causando paure incontrollate, atteggiamenti irrazionali, crolli emotivi.
In questo clima ansioso e sospeso che ancora ci circonda, siamo in attesa di una soluzione definitiva che rimuova (quasi meccanicamente) il problema, come la tecnologia e il consumismo ci hanno abituati a desiderare. Ma, cercando di innalzarci al di sopra delle strutture mentali che la società attuale ha instillato in noi, dobbiamo forse ripensare al significato della condizione storica che stiamo vivendo, e acquisire più profonde consapevolezze.
Possiamo sicuramente – come tu suggerisci – trovare una parola di equilibrio nella storia, nel grande e sornione crogiolo di eventi che è l’antichità. Troviamo allora malanni incoercibili e pestilenze fin dai versi di Omero, nelle cronache di Tucidide, nel Decameron di Boccaccio, fino alla secentesca pestilenza Manzoniana. Senza elencare le epatiti, le sindromi da immunodeficienza acquisita, le numerose zoonosi che la natura ci ha posto davanti in questi ultimi decenni.
Bisogna pensare che, al netto delle nostre acquisizioni tecnologiche, lo stato d’animo e le difficoltà di Homo sapiens di fronte a queste calamità non sono cambiati poi molto: se la ricerca in ambito medico ha spostato sempre più lontano dal singolo individuo il fronte di allarme microbiologico, d’altro lato le mutazioni nei ceppi batterici e virali hanno ingrossano via via le schiere nemiche.
Ippocrate ci direbbe che non c’è nulla di nuovo. Che ancora una volta dobbiamo affidarci al rigore della ricerca medica, alle conoscenze scientifiche, con fiducia e coraggio. Ma che dobbiamo anche comprendere che la natura possiede una saggezza e un equilibrio che ci sovrastano, e che vanno guardati con rispetto. Senza fare come Omero, che di fronte alla pestilenza degli achei la attribuisce all’ira di Apollo, dobbiamo però comprendere che questa società necessita di una leale riflessione su sé stessa, di un recupero del senso del sacro che respira nella vita.
Penso che dovremmo ritrovare una diversa bellezza, che trascenda la concezione individuale per assumerne una collettiva: salute e giovinezza appartengono alla natura e al creato, e non cessano di esistere quando si esauriscono in una creatura, ma da essa dolcemente fluiscono in un’altra.
Capire tutto questo è la base per non essere sopraffatti dallo strazio che ogni essere umano sperimenta, nel vivere un corpo che il tempo disfa e corrompe, mentre l’anima desidera ancora. Ma è anche la base per comprendere che le risorse naturali non vanno esaurite in modo sconsiderato in poche generazioni, perché appartengono a chi verrà. Attaccarsi a qualcosa che scorre è un atteggiamento egoista, doloroso e sbagliato.
Mi piace pensare che Ippocrate ci saprebbe dire le parole giuste: che è necessario accettare la vecchiaia, lottare contro il male rispettandolo, comprenderne il messaggio profondo; che è il momento di riavvicinarci alla natura, di preservare i boschi, di rispettare gli animali; che si può trovare una nuova serenità, osservando il librarsi di meraviglia e sofferenza con la stessa leggerezza, accettando il ritmo e il senso del tutto.

*in cover foto di Peter Fischer da Pixabay
Flavia Salomone

Vive e lavora a Roma. Biologa e antropologa fisica, dopo la laurea in Biologia a indirizzo Antropologico, si è dedicata per alcuni anni alla ricerca nel campo della biologia delle popolazioni del passato. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche, ultimamente con Edizioni Espera ha pubblicato due testi divulgativi per ragazzi sull’evoluzione dell’uomo “C’era una volta Homo” e “Sulle tracce dei nostri antenati in Italia”. Di lei dicono che faccia parlare i fossili.

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